"Chiedo venia"

Mi perdonate, no?
(non siate cattivi: dite di si

Anyway, se qualcuno si sta chiedendo "Chi sarebbe questo qui?", è più che giustificato. La mia attività è stata praticamente nulla nel (poco) tempo che ho passato qui.
Anzi, a dirla tutta, spero di non dovermi ripresentare per via del troppo tempo trascorso senza frequentare.
Forse, qualcuno si potrà ricordare di alcune (poche anche quelle) storie che ho pubblicato in questa sezione, ma ne dubito (Anima e Corpo e la "raccolta" Quotidiano).
Oggi sono qui per pubblicarne un'altra, di storia (si, ho ben due fanfics in sospeso e ne pubblico una terza: sono l'emblema della coerenza

Però, c'è un però.
A parte il fatto che sono costretto a pubblicare il racconto sotto forma di semplice testo (questo sarà un "messaggione": purtroppo ho avuto problemi con Drive, "Chiedo venia" anche per questo), la parola "rodaggio" che ho aggiunto tra parentesi al titolo significa una cosa ben precisa.
In base alle recensioni (poche o tante, positive o negative) che riceverò, deciderò se continuare o meno questo nuovo ciclo di racconti (che in realtà sarebbe il primo, visto che il "vero" primo l'ho interrotto mesi fa).
Conoscendomi, so che potrei abbandonare tutto il lavoro anche domani, quindi tanto vale sapere in anticipo se quello che ho fatto vale la pena di continuare ad essere fatto, o meno (vi sto imponendo di leggere e recensire? Mi sa di si

Come al "solito", non vi dirò nulla riguardo a quello che leggerete, quindi l'unica cosa che posso fare è dirvi: "Buona lettura!"
(la formattazione, ovviamente, andrà a farsi benedire. Potrei perdere tanto tempo a rimetterla a posto: ma non lo farò. Adesso avete un motivo in più per odiarmi

Il Mostro
È vero: siamo stati noi a dare inizio a questa guerra.
Questo è il nostro grande peccato originale.
Questo è il motivo per cui l'odio nei nostri confronti è giustificato.
Questo è il motivo per cui i nostri nemici sono spietati con noi non meno di quanto noi lo siamo con loro.
Abbiamo sparato noi il primo proiettile, sganciato noi la prima bomba, fatto esplodere noi la prima granata, lanciato noi il primo incantesimo.
Siamo stati noi a portare per primi devastazione, morte e sofferenza.
Siamo stati noi. Siamo stati noi. Siamo stati indubbiamente noi.
Infallibilmente noi. Ineluttabilmente noi. Imperdonabilmente noi.
Noi ci meritiamo l'odio dei nostri nemici. Ce lo meritiamo tutto, fino all'ultima, bruciante, ardente, amara goccia.
Noi uccidiamo, trucidiamo, ammazziamo, sterminiamo, senza alcuna pietà, senza alcun rimorso, senza alcuna lacrima, senza alcun rimpianto o ripensamento, stalloni, giumente, puledri e puledre di tutte le età, di ogni estrazione sociale. Senza che nessuno di noi si faccia alcun dubbio sulla giustizia della nostre azioni.
Noi distruggiamo case, distruggiamo scuole, distruggiamo ospedali, distruggiamo fattorie, distruggiamo mercati, distruggiamo musei, distruggiamo fabbriche, distruggiamo, distruggiamo, distruggiamo tutto.
E diamo alle fiamme tutto. Ogni cosa. Nulla si salva.
Noi siamo la peggior piaga che abbia mai afflitto la terra d'Equestria.
Noi siamo dei mostri, dei terribili mostri, degli orrendi mostri, delle tremende bestie che mancano di alcuna cavallinità.
Beviamo il sangue dei morti, mangiamo la loro carne, stupriamo le loro donne, deportiamo i loro bambini, passiamo per le armi tutti i prigionieri.
Noi siamo disgustosi.
Noi siamo una malattia.
Noi siamo la cosa peggiore che sia mai capitata a questa terra, a questa bella terra. Noi dobbiamo essere estirpati.
Il mondo deve superare, sopravvivere alla nostra ribellione, passare all'attacco ed ucciderci tutti, fino all'ultima donna, fino all'ultimo bambino, fino all'ultimo uomo: proprio come adesso stiamo facendo noi agli altri.
Mi viene da vomitare. Tutto ciò è tremendo.
Quello che ho scritto non è certamente la cosa più rivoltante che sia mai stata scritta dall'inizio dei tempi. Non è neppure ben scritta.
Dubito che qualcuno potrebbe impressionarsi più di tanto per queste parole, per queste semplici parole.
Se io m'impressiono, però, è perché ho visto, ho provato in prima persona quello che ho scritto: e l'ho anche fatto. E continuo ancora a farlo.
Io sono un mostro. Un mostro peloso, con orecchie villose, occhi grandi, mani forti, artigli affilati e braccia robuste.
Petto scolpito, gambe atletiche, schiena dritta, collo spesso, mascella potente e denti letali.
Puzzo di sudore e lerciume, ho la coda tagliata poco dopo la base, affinché non costituisca un peso durante la battaglia, ho le occhiaie sotto ai miei occhi marroni, il pelo in parte ispido, tante cicatrici che mi sono fatto prima di diventare quello che sono, qualche dubbio ed una certa esperienza nel combattimento corpo a corpo.
Devo vomitare.
No, non è vero. Io non sono un mostro. Io ho ucciso molte persone. Molte persone. Ma non ho fatto tutto quello di cui i miei nemici mi accusano, ci accusano.
Io non odio i miei nemici. Io non disprezzo i miei nemici. Io non ho nulla di personale contro di loro. Io so che non sono stati loro i primi ad odiarci. So che è colpa delle generazioni passate se questa guerra è scoppiata.
Io eseguo soltanto gli ordini. E i miei ordini non possono esimermi dal commettere omicidio. Omicidi. Numerosi omicidi.
Io sono un soldato. Un soldato piuttosto bravo. Un bravo soldato.
E agisco da solo, o in coppia. In ogni caso, non siamo mai più di quattro.
A volte mi affidano il comando di un plotone, o di più plotoni.
In quei casi, tento di assicurarmi che i miei sottoposti non commettano violenze inutili. Ma è difficile. Molto difficile. A volte troppo.
A volte devo essere severo verso i miei commilitoni.
A volte devo condannarli a pene gravose per la loro insubordinazione.
Mai la fucilazione. Mai . Io non sono quel tipo di comandante.
Ho paura. Ho paura di quello che potrebbe succedere se perdessimo la guerra.
I nostri nemici trattano con la nostra stessa gentilezza i loro prigionieri.
Siamo stati noi a volere questa guerra. Cosa accadrebbe se la perdessimo?
Saremmo veramente cancellati dalla faccia del pianeta? Il nostro popolo dovrebbe subire le stesse violenze che noi stiamo arrecando al popolo nostro avversario, ma moltiplicate per dieci?
Nessuno di noi rimarrebbe più in vita per raccontare alle generazioni future il nostro più grande errore.
La nostra cultura andrebbe perduta.
La nostra civiltà cancellata.
Il nostro ricordo svanirebbe.
Moriremmo.
Io non volevo la guerra. Non volevo il conflitto.
Io volevo il riconoscimento dei nostri territori.
Io volevo l'integrazione tra culture differenti.
Io volevo la fine di ogni ostilità latente.
Io volevo che finalmente potessimo vivere in pace coi nostri vicini, in armonia. Volevo che regnasse la tolleranza. Che le nostre divergenze fossero appianate.
Vorrei piangere, ma non posso.
Tutte le mie speranze sono andate in fumo quel maledetto giorno di Maggio, quando è stato formalmente dichiarato l'inizio delle ostilità.
Io ero già un soldato, a quel tempo.
La mia patria aveva bisogno di me.
Sapevo che essa si era imbarcata in un'impresa pericolosissima.
Sapevo che eravamo più avanti. Sapevo che avremmo colto di sorpresa il nostro nemico. Sapevo che avremmo avanzato con facilità, nei primi tempi, ottenendo vittorie su vittorie.
Ma sapevo anche che non saremmo riusciti a vincere soltanto sfruttando il nostro avanzamento tecnologico.
Sapevo che eravamo troppo pochi e troppo piccoli per vincere così facilmente e così velocemente, come molti invece si aspettavano.
Sapevo che la controffensiva sarebbe stata poderosa, la resistenza accanita, la guerriglia sfiancante e le perdite inimmaginabili.
Sapevo che le mie capacità dovevano essere messe al servizio della mia nazione.
Sapevo che dovevo fare la mia parte affinché i nostri nemici, in un modo o nell'altro, non ci ricacciassero indietro, non prendessero il sopravvento e non capovolgessero i ruoli di attaccante ed attaccato.
Sapevo, sapevo, sapevo e sapevo. E adesso non so niente.
Adesso mi ritrovo in una guerra che non desidero, nella difficile situazione di chi deve uccidere per non essere ucciso.
Io non riesco più nemmeno a ricordarmi le facce di tutti quelli che ho ucciso.
Ucciso.
Ucciso.
Io sono un pacifista? No, non lo sono, altrimenti pensate veramente che avrei preso parte a tutto ciò?
Avrei dato le mie dimissioni, se non fossi stato d'accordo con la decisione di dichiarare guerra ad Equestria.
La patria? Quello che ho appena detto riguardo all'”uccidere per non essere ucciso”? Che vada a farsi fottere la patria!
Perché dovrei difendere le stesse persone che hanno sostenuto con tanto fervore l'entrata in guerra della mia patria, della loro patria?
Perché dovrei difendere le stesse persone che hanno permesso che tanto sangue fosse versato, che tante vite fossero stroncate, dall'una e dall'altra parte degli schieramenti?
Perché dovrei difendere una moltitudine di guerrafondai, che parlano e sostengono la guerra soltanto perché sono degli zelanti invasati o degli irrispettosi ignoranti degli orrori che essa porta?
Si, tutto questo è vero: sono stati loro a volere la guerra. Che siano loro a combatterla.
Come se, del resto, non fosse così: non ho mai visto, in nove anni di carriera militare, così tanti volontari come quelli che si sono presentati agli uffici di reclutamento da tre anni a questa parte.
Ma, a dirla tutta, lamentarsi è da ipocriti.
Se veramente avessi a cuore il valore della vita, di qualsiasi vita, sia essa di un lepricauno o di un pony, non sarei ancora qui, pronto ad ammazzare gente a comando.
Io denigro questa guerra, e denigro tutte le guerre e tutte le violenze in generale (e quindi io non sono una persona che meriti di essere ascoltata, dato che, per lavoro, io sono autorizzato ad uccidere e a fare uso della violenza, quando è necessario), ma posso comunque capire perché sia scoppiata.
È per colpa dell'odio, per colpa dell'ignoranza, per colpa del desiderio di vendetta, per colpa del sentimento della rivalsa e per colpa del sentimento del riscatto nazionale e razziale.
Per troppi anni, per troppo secoli, i lepricauni sono stati trattati come bestie inferiori ed incivili, brutali ed assassine.
Bestie che non erano, o che sono stati costretti dalle circostanze ad essere.
Nessuno ha potuto, o voluto, vedere il lato buono che era in noi, come razza, come specie, come cultura, come conoscenza, come sapienza, come consapevolezza.
Nessuno ha mai avuto l'opportunità di vedere, o nutrito il desiderio di conoscere, la parte migliore, la parte più raffinata, la parte più colta e progredita della nostra società, delle nostre usanze.
Nessuno, o pochi, troppo pochi, ha mai voluto vedere il meglio di noi.
Siamo sempre stati perseguitati, cacciati via, bistrattati, umiliati, esiliati, costretti a vagabondare, a peregrinare, forzati a vivere un esodo perenne di terra in terra, generazione dopo generazione, anno dopo anno, individuo dopo individuo.
Sempre i cattivi, sempre i barbari, sempre gli invasori, sempre i meno progrediti, sempre le bestie, sempre i “pulciosi”.
Sempre il peggio, sempre il brutto, sempre il malvagio, sempre la colpa di ogni male.
Sempre i mostri: fino a quando non lo siamo diventati per davvero.
Ecco cosa siamo stati, come siamo stati trattati, come siamo stati accusati, discriminati e disprezzati, lungo tutta la storia del nostro popolo.
I lepricauni.
I diversi.
Quelli orrendi, quelli sporchi, quelli cattivi, quelli con gli occhi iniettati di sangue, avari, adoratori della ricchezza, fedifraghi, inaffidabili, puzzolenti, barbari.
Barbari.
La mia gente non ha dimenticato questo plurisecolare trattamento.
L'odio nei nostri confronti, insieme al nostro odio nei loro, sono progrediti di pari passo: si sono stratificati progressivamente. Sono entrati a far parte della mentalità comune, da ambo le parti, in ambo le società.
Loro erano gli oppressori. Noi eravamo i barbari.
Quelli che avrebbero venduto la prole pur di beccarsi qualche gemma preziosa.
Quanto era lontano dal vero tutto ciò. Ma qualcuno, sia tra i nostri, sia tra i loro, ha mai tentato di disconoscere tutto questo? Alcuni si, ma non abbastanza.
Io sono stato tra questi (o forse no. Le mie scelte di vita parlano chiaro: perché mai sono entrato nell'esercito della, ai miei tempi, neo-costituita Canida, se non per paura che le nazioni confinanti ci attaccassero? Ipocrita. Ipocrita), ed ho conosciuto altri che si sono battuti per far capire alla gente che il tempo della vendetta, il tempo della rivalsa, era finito.
Che non bisognava sfruttare la nostra potenza e le nostre energie per pretendere che fosse fatta giustizia per crimini dei quali gli stessi esecutori materiali erano morti. Che bisognava cercare la cooperazione, la tolleranza, la pace.
Si, la pace, anche se sono un soldato: anche se i soldati fanno discendere la morte sulle famiglie di coloro che uccidono (ipocrita! Ipocrita!).
Io volevo la pace. Alcuni volevano la pace.
Ma i più volevano la vendetta, la rivalsa.
E non volevano ascoltare la voce e le opinioni di coloro che la pensavano diversamente.
E quindi, guerra.
Fanculo il popolo. Non ha la più pallida idea di ciò che può fargli bene per davvero. Di ciò che gli può giovare sul serio.
Non mi sono arruolato, di mia spontanea volontà, per difendere le vite di potenziali maniaci omicidi.
Sono stati influenzati dalla propaganda politica (il governo desiderava ardentemente una guerra. Per motivi economici, o di prestigio internazionale, suppongo)?
Perché non hanno fatto uso del loro pensiero critico?
Perché non sono riusciti a farsi strada tra la cortina di bugie che gli è stata gettata davanti agli occhi?
Non avevano la consapevolezza, non avevano la cultura, non avevano la maturità necessaria per opporsi all'indottrinamento?
Secondo voi, questo li rende meno colpevoli?
Non tutti quelli che si sono opposti alla guerra erano colti od acculturati.
La mente dei più potrà essere debole, ma nessuno può negare che i loro cuori ardevano dal desiderio di sottomettere i prevaricatori di un tempo.
Che avessero ragione coloro che ci dipingevano come dei demoni pelosi?
Non diciamo idiozie: tutto nasce come conseguenza di qualcos'altro.
Secoli di abusi non si cancellano senza sfoghi violenti.
La storia stessa ce lo insegna.
Va bene, lo ammetto: sono un soldato soltanto adesso. Ero un medico da campo, ed un violoncellista a tempo perso, fino a non più di un anno fa.
Questo ha importanza, in ogni caso?
Non ho rifiutato quando mi è stata fatta quella proposta.
Non ho esitato, non ho dubitato di ciò che mi veniva offerto, neppure per un secondo.
Non potevo declinare l'offerta, ma questo l'ho scoperto dopo.
Avrei dovuto dire di no, indipendentemente da quello che avrebbe potuto accadere.
Invece ho accettato. Senza ripensamenti. Come quando eseguo gli ordini. E ora sono diventato quello che sono, e non posso più tornare indietro.
Il secondo più grande sbaglio della mia vita.
Il primo è stato non adoperarsi più attivamente per contrastare l'entrata in guerra del mio paese.
Sarò punito per i miei peccati.
Non in qualche mistica e nebulosa vita ultraterrena: in questa, e sono certo che la mia punizione mi colpirà sottoforma di una morte violenta.
Sto delirando. Sono pazzo, vi dico: pazzo!
No, niente affatto. Sarei già morto, se lo fossi.
Oramai non è più così facile uccidermi. Ma questo non vuol dire che la vita di un folle sia più difficile da prendere rispetto a quella di una sano. Io non faccio eccezione.
Trovare momenti di pausa diventa sempre più difficoltoso. Non c'è un istante libero.
È un evento straordinario già il semplice fatto che stia avendo il tempo di buttare giù queste righe. Ma, come prima, questo non vuol dire che io sia libero: sto semplicemente aspettando che si faccia l'ora dell'adunata per la prossima sortita.
Invece di dormire per qualche ora scarsa, ho deciso di impiegare il mio tempo per mettere su carta questi pensieri. Dovevo farlo.
Che si fotta, anche il sonno.
Non posso dire, quasi, a nessuno quello che ho scritto qui.
Non posso dire che considero la guerra un inutile spreco di risorse, un'intollerabile, insensata, violenta carneficina.
Non posso dire di stare aspettando con ansia che essa abbia termine, che attendo con ardore il momento, il giorno, l'ora in cui mi comunicheranno che non è più necessario che io stronchi vite, che non è più necessario che io veda altre facce terrificate.
Voglio piangere. Vomitare non basta.
Non mi basta.
Tra i pochi a cui posso confidare questi pensieri c'è la mia amata compagna di missioni. Le voglio un bene dell'anima.
E questo è male.
Neppure lei è facile da uccidere, eppure so che farei meglio ad abituarmi all'idea che un giorno potrei non rivederla più, o peggio, potrei vedermela morire davanti agli occhi.
So che dovrei abituarmi a questa terrificante, sconvolgente, insopportabile idea, ma non ce la faccio. Pasifae è troppo importante per me.
No, non sono innamorato di lei (non credo che potrò mai essere innamorato nuovamente: non dopo l'ultima volta); tuttavia, il sentimento che provo per lei va oltre l'amicizia, od il semplice cameratismo che si instaura tra compagni d'armi. Lei, per me, è come una madre e una sorella insieme.
È saggia, ma può essere anche molto sciocca, compassionevole, ma anche spietata, comprensiva, ma anche intransigente, sensibile, ma anche incredibilmente fredda.
È una persona completa.
E per questo mi fa un po' paura.
Ma senza il suo inestimabile sostegno, non sarei ancora ritto sulle mie spalle e sano nella mente. Le devo molto, per la mia integrità fisica e psichica.
I miei superiori sono dei folli, in buona parte.
Non è facile trovare un militare pacifista. È un'evidente opposizione di termini. Un ossimoro di alto livello, irrispettoso dei veri militari e irrispettoso dei veri pacifisti.
E infatti la stragrande maggioranze degli ufficiali (mi riferisco in particolar modo ai generali che ho avuto il dispiacere di conoscere) con cui ho avuto a che fare rifuggono da questa definizione. Sono entusiasticamente a favore della guerra.
Sapeste come la esaltano.
Vedono in essa l'occasione perfetta per dimostrare al mondo quanto i lepricauni valgano, quanto la nostra razza sia superiore alle altre, quanto tutti coloro che nei secoli ci hanno considerato come rifiuti, schifezza, scoria del mondo, fossero lontani, lontanissimi, dalla verità.
Non so più cosa dire: le mie posizioni sono chiare.
Non vedo nulla di sbagliato nel risollevare le sorti della nostra gente, nel mostrare al mondo che i lepricauni possono essere molto di più che dei semplici “sacchi di pulci”, “ammassi pelosi”, “rozzi scavatori sottosviluppati”.
No, non vedo nulla di sbagliato nel riscatto.
Sono io il primo a sostenere che Canida dovrebbe crescere, dovrebbe ingrandirsi, dovrebbe poter rivaleggiare liberamente, alla pari, con tutte le altre grandi potenze del continente, ed anche con quelle d'oltreoceano: che la sua economia dovrebbe fiorire, che la sua popolazione dovrebbe aumentare; che insomma si mettesse allo stesso livello di Equestria, di Zebrica, del regno dei grifoni, dell'Impero Stambecco.
Che rendesse più felici i suoi cittadini, che potesse offrire loro una vita migliore, più prospera, meno difficile, meno ardua, che potesse far dimenticare loro tutte le sofferenze e le tribolazioni (che sono state tante, tante, tante) della passata esistenza da nomadi, vagabondi, reietti, incompresi, discriminati.
Che tutto questo fosse soltanto uno spiacevole ricordo, da sostituire con ricchezza, felicità, integrazione, commistione di culture.
Quante cose avremmo potuto imparare dai nostri vicini.
Quante cose utili loro avrebbero potuto offrire a noi e noi a loro.
Quanto sarebbe stato bello vedere le nostre razze convivere in pace, in armonia, in amicizia.
E invece, cosa abbiamo fatto? Cosa stiamo continuando a fare?
Stiamo giustificando, stiamo rafforzando, stiamo certificando quell'odio che intendevamo distruggere.
Stiamo dando ai nostri nemici una garanzia che il loro comportamento discriminatorio era ben più che giusto.
Che avevano ragione a dipingerci come dei selvaggi.
Volevo la pace e adesso sono un servitore della guerra. Io sono un mostro.